Nel 1920 nacque un artista francese poliedrico: musicista jazz, scrittore di romanzi e poeta. Il suo nome è Boris Vian, uomo appassionato attaccato con le unghie alla sua terra, che amava comporre canzoni rivoluzionarie per la sua Francia così tremendamente immersa nella miseria del dopo guerra. Je veux une vie en forme d’arete non è solo una sua poesia, ma diventa motivo di grande ispirazione per William Willson. La terza traccia del suo Just for you, not for all è cantata in un francese molto secco e quasi feroce accompagnato dalla chitarra acustica che scandisce con decisione il ritmo. È un flash di poco più di un minuto che parla nient’altro che d’amore, di un uomo che vive e si nutre di lei: “voglio una vita a forma di te ed io l’ho, ma non mi basta ancora, non sono mai contento”. Il cantautore di Scicli presenta, dopo immense fatiche e cadute (passa infatti per anni da un gruppo all’altro, collezionando esperienze che permettono di affinare le sue doti di musicista), il suo primo album solista. Sono piccoli scorci, quelli che ci descrive, dipinti con poche pennellate lente, dove si sviluppano piccole storie raccontate unicamente dalla voce e dalla chitarra, qualche volta accompagnate da una base elettro acustica,che confeziona il pezzo e lo completa come in “Y a du soleil dans la rue”. Il francese e Boris Vian ancora non ci abbandonano e li ritroviamo anche in “Pourquoi que je vis” un pezzo decisamente allegro e gioviale, che porta una ventata di ottimismo e freschezza in tutto il percorso più incline, invece, a suoni ed atmosfere cupe. Non solo l’album si presenta come un miscuglio di nazionalità, dove a canzoni in francese se ne alternano altre in inglese, ma si scopre essere, procedendo nell’ascolto, un vero e proprio coacerbo di citazioni e omaggi a grandi personalità della storia, tra cui anche Tim Buckley. “Song to the Siren” non è altro che la cover di uno dei pezzi storici del compositore americano, morto a soli 28 anni. Probabilmente il pezzo migliore tra tutte e dieci le tracce è “Incurable”. Straziante ma appassionata è la voce che lascia trapelare un’energia diversa rispetto al resto, c’è qualcosa di potente in Wilson che gli permette di spingere e osare di più. Nel titolo sta il segreto: “incurabile” dice, ma incurabile da cosa? Ascoltando attentamente, la risposta viene da sola. È la malattia ciò da cui non si può guarire. La rabbia e il dolore sono così potenti e viscerali che diventa inevitabile trasportarli nel proprio canto “appesantito” dalla voce grave (ma bellissima) del controcanto. Il binomio voce e chitarra si ripresenta costantemente anche in “The wreck of the nordling, Song, Wonderful nightmare e Red iron man”, ma contrariamente a ciò che si pensa, non annoia mai grazie alla sua intensità e teatralità che strappa un sorriso quando deve e riempie di malinconia quando serve. Certo, se la pronuncia inglese (ma soprattutto la francese) fossero un poco più pulite non diventerebbe così palese che William Wilson altro non è che un ragazzo italiano che non ama troppo cantare nella sua lingua. La lunga gavetta fatta di alti e bassi ha dato a questo giovanotto siciliano una maturità artistica non indifferente che esplode in questo suo album, grazie anche alla partecipazione di Giuseppe Forte alle tastiere, chitarre e mixer e dell’amico di sempre Francesco Inturrisi (già compagno di viaggio nei Seeming Death, sua prima band nel 1998) al basso. Un unico appunto. Per poter giudicare davvero il calibro di un artista, sarebbe più interessante ascoltare un lavoro che sia interamente prodotto dalla sua mente. Perché la pasta c’è ed è davvero buona. - Angela Mingoni - Leave a Reply. |
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Febbraio 2017
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